Simone Cireddu racconta il cinema visionario di Paradžanov in una conferenza all’Unla

Perseguitato per anni dal regime sovietico, il regista è morto nel 1990

Giovedì, 15 giugno 2023

Arriva all’Unla di Oristano la conferenza Paradžanov / Storia di una colore, a cura di Simone Cireddu. L’appuntamento è per domani, venerdì 16 giugno, alle ore 18. Si parlerà del visionario regista surrealista Sergej Iosifovič Paradžanov, nato a Tbilisi, in Georgia, il 9 gennaio del 1924. La sua arte è stata soggetta a fortissime censure da parte delle autorità sovietiche.

A introdurre la figura di Paradžanov sarà Simone Cireddu, storico dell’immagine in movimento e videomaker che si occupa in particolare di avanguardie cinematografiche, sperimentazione audiovisiva e documentari di creazione.

La famiglia del regista è armena: il nonno paterno, vetturino e carraio, russifica il proprio cognome Paradžanian in Paradžanov, per poter entrare nella corporazione dei mercanti. Nel 1945 Sergej Paradžanov è ammesso all’Istituto di Studi cinematografici di Mosca. Nella sua rigorosa ricerca di modi espressivi mai sperimentati, recupera procedimenti appartenuti alle avanguardie cinematografiche dada-surrealiste e abbandona il cinema di interpretazione. Già nelle sue prime pellicole, Paradžanov opta esteticamente per un cinema poetico dominato da coordinate lirico-formali e simboliche: i personaggi non sono caratterizzati da motivazioni psicologiche; il movimento degli attori perde ogni connotazione realistica, diventando metafora o segno coreografico. Neolaureato, dal 1951 lavora stabilmente negli studi cinematografici di Kiev e contribuisce alla Nouvelle Vague ucraina.

Nel 1968 gli studi cinematografici di Yerevan invitano Paradžanov a girare un film ambientato nelle campagne armene, prendendo ispirazione dalle tradizioni orali e popolari locali. Dopo qualche mese hanno inizio le riprese di Sayat Nova, pellicola dedicata al poeta, bardo e monaco armeno Harutyun Sayatyan, vissuto alla fine del XVIII secolo a Tiflis, antico nome di Tbilisi. Paradžanov rinuncia a qualsiasi struttura narrativa: muto e sordo, inafferrabile e misterioso, il film viene ultimato nel 1969.

Sayat Nova è una celebrazione surrealista della libertà artistica. Non racconta ma mostra, non descrive ma evoca: è composto da un susseguirsi di inquadrature il cui significato è spesso indipendente dal loro ordine di successione. L’uso frontale della macchina da presa riprende nel dettaglio composizioni molto elaborate, moltiplicando i riferimenti metaforici. Quelle di Sayat Nova sono immagini più antiche del cinema stesso: Paradžanov sperimenta la bidimensionalità, la staticità, i primitivi effetti di montaggio, la perseverante presenza delle didascalie, il suono slegato dalle immagini, i colori sempre accesi e sgargianti. E il rosso, tanto rosso. Lente le immagini sontuose. Solennità ieratica dei gesti e degli impassibili volti umani. Il film è muto. Una intermittente voce fuoricampo. C’è della musica. Nessun dialogo. Suoni di voci utilizzati come musica.

Tessitura di simbolismi astratti, assemblaggio musicale di nuclei visivi fine a se stessi: Sayat Nova è un susseguirsi di visioni, tableaux vivants, animate icone cinematografiche, ridondanti affreschi barocchi. La storia è abolita e la sistematizzazione cronologica annientata: i fatti svaniscono e si trasformano in statica meditazione estatica e mantra cerebrale per occhi e orecchie. Immagini pure, labirintiche allucinazioni, disorientamenti. La pura essenza estetica del cinema, senza l’obbligo di raccontare. Se la storia è abolita, la geografia non lo è. Sayat Nova è la frammentata e disgregata identità armena dopo la diaspora. Un’Armenia senza tempo, rappresentata dalla sua cultura e concretizzata da usi e costumi, rituali, lingue e chiese, miniature, stele, e libri.

In una delle prime proiezioni private a Yerevan, i delegati del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica abbandonano infastiditi la sala: il film Sayat Nova viene etichettato come “opera oscura senza senso, dal carattere puramente lirico, ermetico e anti-narrativo”. La pellicola viene boicottata dalle autorità sovietiche: viene sequestrata e ne viene vietata qualsiasi possibilità di distribuzione. Sayat Nova diventa così un film censurato e interdetto, un film “samizdat”. In seguito, contro la volontà di Paradžanov, il film subisce una prima drastica revisione. Sergej Yutkevič viene incaricato di rimontarne una versione abbreviata, che uscirà nel 1971 con un nuovo titolo, Il colore del melograno.

Nel dicembre del 1973 Paradžanov è a Kiev. Sta lavorando a un nuovo film insieme a Viktor Šklovskij. Viene arrestato e condannato a sei anni di lavori forzati, poi ridotti a quattro, per “traffico di oggetti d’arte, omosessualità e istigazione al suicidio”. Il colore del melograno è il motivo profondo dell’arresto. Alla fine del 1977, dopo quattro anni e undici giorni di detenzione, il regista viene liberato e confinato a Tbilisi, con il divieto assoluto di lavorare nel cinema. Negli anni successivi parecchi progetti vengono abbozzati e poi abbandonati. Viene nuovamente arrestato nel 1982 e poi dichiarato innocente e liberato. Rientrato a Yerevan, nel 1983 riprende il suo percorso verso un personale cinema poetico. Scompare il 20 luglio del 1990, mentre sta lavorando a un film autobiografico, rimasto incompiuto.

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