“Molte di loro sono coperte di cicatrici invisibili”, così Benedetta Cabitza, 27 anni di Oristano, racconta le donne ospitate dal centro di accoglienza in cui lavora a Bologna. Cicatrici invisibili che le operatrici culturali, così come Benedetta, cercano di palesare alla società italiana e agli organi competenti. In equilibrio tra burocrazia e supporto psicologico, Benedetta Cabitza aiuta queste persone a riprendersi la loro identità e dignità.
Il centro dove Benedetta lavora è un centro d’accoglienza straordinario (Cas), per sole donne. Il centro accoglie e aiuta le persone che sono appena arrivate in Italia: è la cosidetta fase di prima accoglienza. Nello specifico, Benedetta si occupa di aiutare le madri singole in diverse pratiche: iscrizione al sistema sanitario nazionale, tutela legale ecc..
Le donne ospitate dal centro, che risponde all’Associazione Mondo Donna Onlus, sono tutte giovanissime (la più anziana ha 41 anni), per la maggior parte vittime di tratta a scopo sessuale.
“In questo lavoro”, racconta Benedetta Cabitza, “si interagisce con persone molto vulnerabili, che hanno diverse cicatrici: molte sono fisiche, ma tante altre sono cicatrici interne e invisibili”.
“Oserei dire”, prosegue Benedetta, “che è un po’ come fare l’equilibrista. “Vacilli tra la parte burocratica ma c’è tanto da fare anche a livello umano, per queste persone tu diventi una guida, un supporto”.
Benedetta Cabitza è stata assunta nel Centro dopo il suo ultimo tirocinio, ma la sua carriera vanta una grande preparazione teorica. Laureata alla triennale di Bologna in Scienze Politiche Internazionali, ha poi fatto un master in Terrorismo e Diplomazia a Tel Aviv, in Israele. Attualmente si sta specializzando in Cooperazione Internazionale e Diritti Umani a Bologna. Durante i suoi studi ha anche lavorato in Grecia, all’accoglienza dei migranti appena sbarcati e in Uganda, in un centro per disabili.
“Quella italiana”, ci spiega, “non è una situazione emergenziale a livello di numero di sbarchi, emergenza avuta invece nel 2014 – 2015. In Grecia, per esempio ho lavorato con numeri enormi. Le persone venivano accolte nelle tende anziché in vere proprie stanze. In Italia, però, è emergenziale lo stato in cui arrivano queste persone, e lo stato in cui vivono e la qualità di quella vita”.
“Il mio”, continua Benedetta, “è un lavoro che dà tanto, ma toglie anche. Bisogna sempre pensare che davanti ci sono persone, e non numeri. Nessun giorno è come quello prima, non puoi programmarlo”
“Noi siamo nati nella parte giusta del mondo, in quella più fortunata”, conclude Benedetta Cabitza. “Ma in Grecia ho avuto la possibilità di incontrare tante persone laureate, professori, medici.. Mi porto sempre nel cuore la frase che mi disse un giorno un dermatologo: «Essere un rifugiato è una condizione dovuta alle circostanze». Per fare un lavoro come il mio, ma non solo, bisogna ricordarsi di questo. Basta pochissimo per finire in mezzo a una catastrofe ed essere costretti a cambiare la propria vita”.
Sabato, 1° febbraio 2020
Bravissima Benedetta, una vera Cabitza! Complimenti per il tuo impegno